Chi vi scrive ha avuto serie difficoltà nel redigere questa recensione di Dreams of Another, videogioco dei nipponici developer dello studio Q-Games. In particolare, è uno dei titoli per cui è stato più faticoso trovare una chiosa numerica, una valutazione che comprendesse allo stesso tempo le opinioni reciprocamente lontanissime che è in grado di suscitare nel corso della sua breve durata, e che lasciasse capire ai lettori che se sceglieranno di avviarlo, sia in VR che in Flat, si sarebbero trovati di fronte un’esperienza ben confezionata, originale, tra le più strane mai videogiocate; in bilico, però, tra una evidente volontà poetica e una, più nascosta, spasmodica ricerca di “profondità a tutti i costi”. E si sa: quando il “deeper meaning” è troppo costruito, rischia di mancare il bersaglio e risultare pretestuoso, vuoto. Inutile, persino.
L’uomo in pigiama e il suo fucile magico
Raccontare il core ludico e concettuale di Dreams of another sembra così facile, se lo si fa come hanno pensato gli sviluppatori: non c’è creazione senza distruzione, esordiscono nell’incipit e parlando direttamente al player. Pertanto, cosa c’è di strano se nella nebbia indistinta dei piccoli diorama 3D, i livelli di gioco, il protagonista, un uomo in pigiama, si fa strada a colpi di arma da fuoco e granate, che però anzichè sforacchiare cose, persone e animali permettono loro di “uscir fuori” dalla nebbia, che in effetti è composta di particelle disordinate che tornano a posto (in cose, persone e animali di poco fa) ogni volta che le colpiamo coi nostri proiettili? L’atto artistico dello scalpello che tira fuori l’uomo dal blocco di marmo è del tutto simile, e a nessuno sembra folle, in fondo. Anche lo scultore in effetti distrugge qualcosa, in modo mirato, per far nascere qualcos’altro.
Tecnicamente, questa scelta impone uno stile parecchio stilizzato, dal momento che non sarebbe stato possibile scomporre in atomi ogni oggetto ed NPC, farlo volatilizzare a poca distanza da dove si trovava prima, da intero, e istruire con i codici ogni atomo a tornare al suo posto quando lo sfioriamo coi proiettili dell’arma in dotazione al protagonista. Eppure, il colpo d’occhio è super scenografico e in linea con la tematica e l’atmosfera onirica.
Senza contare che lasciando tutto quasi “sfocato”, come composto di pixel giganti che vibrano e si increspano, imitando la superficie dell’acqua. Senza contare che con questa mancanza di definizione diffusa, le fattezze del protagonista restano indefinite e non è stato difficile immedesimarci in lui, mentre da dormiente sogna le vicende apparentemente scollegate che definiscono e disegnano, lentamente la trama. Abbiamo detto “apparentemente”, tra virgolette, perchè noi stessi non siamo certi al 100% di non esserci persi qualcosa, mentre sparavamo nel nulla affinchè tornasse a essere qualcosa, e tra dialoghi deliranti, oggetti parlanti e massime pseudofilosofiche dispensate come caramelle, ci affannavamo per trovare un fil rouge che, forse, non esiste.
Il confine sottile tra profondità e vuotezza
Lo abbiamo detto all’inizio: la ricerca forzata di profondità è sempre in bilico sulla sottile linea che separa l’effettiva filosofia, la riflessione interiore, i dubbi esistenziali dalla vuotezza. Dalla questione posta per il solo “poterla porre”, ma che in fondo non importa davvero sciogliere nè per chi la pone, né per chi la riceve. Dreams of Another è, nomen omen, un sogno febbrile frammentato, fatto di episodi sconnessi che nell’intenzione degli sviluppatori sta a chi gioca provare a ricomporre. Ma i bordi non combaciano quasi mai, le situazioni assurde non sono sempre coerenti fra loro e l’operazione è troppo spesso fine a sé stessa, o inutilmente circonvoluta al punto che l’atto di scioglierla la priva di significato.
Un bambino in un giardino ci chiede di aiutarli a trovare un pianoforte. Le porte ci parlano, se ci avviciniamo loro. “Chissà se le porte hanno gli occhi sul lato interno, o esterno” sussurrano. O anche “siamo fatte per essere aperte, o chiuse?”. Nessuna risposta, nessun collegamento con il contesto. Filosofia spicciola, spicciolata come a voler dare un tono? Chissà. Mentre ci pensiamo lo schermo va in nero, c’è un caricamento. Tornano le immagini e siamo in una piazza di un villaggio quasi di italica memoria, dove l’altro personaggio principale, un soldato che non è in grado di sparare, siede e legge un libro. Lo incontreremo spesso, intento in varie attività, ma per ora sta là. Non dice nulla di utile alla prosecuzione, il bambino è scomparso. In compenso, da un tombino esce una talpa. La inseguiamo, ma muore di vecchiaia. Ci dice una frase poetica, anche lei come le porte, su “la vita l’universo e tutto quanto”, ma non ci troviamo in un’opera umoristica come Guida Galattica per Autostoppisti. Tutti si prendono dannatamente sul serio qui, vorrebbero suscitare emozioni. Però poi lo schermo va di nuovo a nero, e ora siamo in un parco dove dobbiamo trovare un NPC, un anziano, parlare con lui e fine, si torna allo schermo nero. Poi… siamo finiti sott’acqua? Sì, ma per pochi istanti, prima di tornare… allo schermo iniziale con l’uomo in pigiama addormentato.
Capite ora cosa intendiamo? Alla fine, solo alcune, poche, di queste situazioni, che continuano con il medesimo schema dissennato di cui sopra, messe in prospettiva assumeranno un senso; mentre moltissime altre resteranno un vacuo esercizio di stile, messo in scena apparentemente per darsi un tono mediante frasi apparentemente profonde, che diventano quasi parodistiche e ironiche. Penseremmo di aver sbagliato noi, forse è davvero così, e in realtà l’intento degli sviluppatori è sempre stato questo: far sorridere con un titolo che sembra profondo, e poi se ti ci tuffi sbatti la testa in una pozzanghera. Ma ci sono troppi altri elementi più sentiti (la trama del bambino, del soldato che non sa sparare, del sonno come veicolo per viaggiare con la mente) e presi sul serio per dare questa chiave di lettura per buona.
La recensione in breve
“Un bel tacer non fu mai scritto” dice il proverbio, e secondo noi vale anche in questo caso. Non volevamo essere troppo cattivi, all'inizio, con un titolo che sfrutta una meccanica tecnica così complessa, le particelle che si scompongono e ricompongono quando le colpiamo, che in VR è così immersivo e ben congegnato, che peraltro usa molto meglio di tanti altri titoli AAA il feedback aptico dei controller di PS5 e del visore stesso. Però, la consapevolezza, l'impressione crescente che Dreams of Another ci stesse facendo girare in tondo dandoci in pasto frasi poetiche e filosofiche un po’ alla rinfusa, come strizzandoci l'occhio per dire “visto quanto simbolismo? Visto?” alla fine ci è venuto a noia. Così, come dicevamo nell'intro, ci siamo trovati nella sgradevole posizione di non poter far altro che dare un voto appena sufficiente a un prodotto tecnicamente valido, concettualmente interessante, ma messo in pratica con troppa spavalderia. Peccato. Poi oh, lo ripetiamo: magari non ci abbiamo capito niente noi, ma è il rischio dell'arte moderna, o meglio, il suo concetto portante. Non si può piacere, né si può esser capiti da tutti.
-
Voto Game-eXperience