Dead Take, ultima creazione di Surgent Studios, è un esperimento narrativo che combina escape room, sequenze in prima persona e segmenti FMV (full-motion video) per costruire un horror psicologico che non fa leva su mostri o presenze sovrannaturali, ma sulla parte più spietata dell’animo umano. Qui l’orrore nasce dall’ambizione, dall’ego e dalla corruzione che si annidano nell’industria dello spettacolo, un mondo dove i sorrisi luccicanti nascondono spesso promesse vuote e ricatti silenziosi.
Non è facile incasellare Dead Take in un genere preciso. Non è un classico survival horror, ma non è neanche una pura avventura narrativa. È un ibrido che pesca da più mondi: l’enigmistica e l’esplorazione tipiche delle escape room, la tensione da thriller psicologico, l’immersività del found footage e del cinema interattivo. Ma andiamo ad approfondirne ogni dettaglio in questa nostra recensione.
Una trama che smaschera il lato marcio dello showbiz
Il giocatore veste i panni di Chase Lowry (Neil Newbon), attore in difficoltà economiche e professionali, che decide di introdursi nella villa di Duke Cain, celebre e controverso regista, alla ricerca del suo amico scomparso Vinny Monroe (Ben Starr). Quello che sembra un semplice atto di disperazione diventa presto un’indagine sul potere, sulle dinamiche di controllo e sull’ossessione per il successo.
Il racconto prende forma attraverso l’esplorazione ambientale, dialoghi registrati e filmati che ci permettono di ricostruire, pezzo dopo pezzo, la relazione tra Chase e Vinny. Il cuore narrativo ruota intorno a domande scomode: Quanto siamo disposti a sacrificare per ottenere un ruolo? Chi decide chi “merita” di avere successo? E cosa succede quando il sogno diventa una gabbia?
La villa di Cain è piena di indizi: lettere personali, documenti, storyboard, appunti di produzione. Tutto contribuisce a delineare una rete di rapporti tossici e compromessi morali. Pian piano emerge anche la storia di The Last Voyage, la prossima e ambiziosa pellicola di Cain, che diventa una metafora dell’intero gioco: un’opera grandiosa costruita sulle macerie delle vite altrui.
Il personaggio di Duke Cain incarna l’archetipo del “genio” che crede di essere al di sopra delle regole, capace di elevare o distruggere carriere a suo piacimento. Vinny e Chase sono due vittime di questo sistema, opposti per origine ma uguali nella loro vulnerabilità: uno favorito dalla nascita, l’altro costretto a farsi da sé, ma entrambi intrappolati nelle stesse dinamiche di abuso e manipolazione.
Ambientazione e atmosfera: la villa come protagonista
Uno dei punti di forza di Dead Take è l’ambientazione. La villa di Duke Cain non è solo uno sfondo, ma un personaggio a sé. Ogni stanza racconta una storia, non solo attraverso gli oggetti ma anche grazie al design, che alterna lusso sfacciato a spazi stretti e soffocanti.
La direzione artistica è attenta ai dettagli: dai tappeti usurati nelle aree di servizio ai lampadari maestosi delle sale principali, ogni elemento comunica qualcosa sul padrone di casa. Le zone pubbliche della villa emanano calore e ricchezza, mentre quelle private sono fredde, distaccate e quasi asettiche.
L’illuminazione gioca un ruolo fondamentale: luci calde nelle aree di rappresentanza, ombre lunghe e tagli di luce drammatica nei corridoi, riflessi metallici in cucine e magazzini. Tutto contribuisce a un senso costante di tensione.
Sul fronte audio, Ross Tregenza (The Quarry, Deathloop) firma una colonna sonora minimale ma incisiva. I momenti di silenzio sono carichi di significato e vengono spezzati da improvvisi picchi sonori che amplificano l’ansia. Il sound design va oltre la musica: scricchiolii di legno, fruscii lontani, passi appena percettibili. A volte sembra che la villa stessa sia un’entità vigile, pronta a reagire a ogni nostra mossa.
Gameplay: tra enigmi ed esplorazione
Il gameplay di Dead Take ruota intorno a puzzle ambientali in stile escape room. Ogni sezione della villa nasconde enigmi che richiedono osservazione, logica e spesso una buona memoria. Alcuni puzzle sono piuttosto diretti, come combinare oggetti o trovare codici; altri, invece, sono più concettuali e legati alla narrativa, come ricostruire la sequenza corretta di una pellicola o interpretare note di sceneggiatura.
Non c’è un’innovazione radicale nelle meccaniche, ma l’integrazione con la storia è impeccabile: ogni enigma sembra avere una ragione d’esistere, e risolverlo non è mai un atto puramente meccanico.
L’uso dell’FMV è uno degli elementi più riusciti. Le clip che troviamo sparse per la villa – provini, interviste, dietro le quinte, conversazioni private – non sono solo collezionabili estetici, ma pezzi fondamentali del puzzle narrativo. Spesso vanno ricomposte per sbloccare nuove informazioni o cambiare la nostra percezione degli eventi.
Questa meccanica di “montaggio narrativo” è più di un minigioco: è un modo per farci vivere in prima persona il lavoro di un montatore cinematografico e, al contempo, di un detective che manipola la realtà per avvicinarsi alla verità.
I jump scare ci sono, ma dosati con attenzione. Non sono mai usati per facili spaventi: arrivano nei momenti in cui la tensione ha già raggiunto il limite, funzionando da scarica improvvisa che ci ricorda il pericolo della situazione.
Tematiche e impatto emotivo
Il merito più grande Dead Take è l’aver usato il videogioco per parlare di dinamiche reali e disturbanti. La sua critica al mito della meritocrazia, alle relazioni di potere sbilanciate e alla tossicità del mondo dello spettacolo è tagliente, ma mai predicatoria.
È un gioco che ti lascia addosso più domande che risposte. Ti chiede di riflettere non solo su cosa sei disposto a fare per ottenere qualcosa, ma anche su quanto valga il prezzo pagato da chi ti circonda.
Il fatto che tutto ciò sia raccontato con attori di prim’ordine – Ben Starr, Neil Newbon, Jane Perry, Laura Bailey, Matthew Mercer, Sam Lake e Travis Willingham – dà un peso ulteriore all’esperienza. Ogni interpretazione è credibile, misurata e capace di trasmettere sfumature emotive complesse.
Longevità e rigiocabilità
La durata media si aggira intorno alle cinque ore, a seconda della velocità con cui si risolvono i puzzle. Non è un gioco pensato per una lunga rigiocabilità, ma il sistema di frammenti video e la possibilità di ricostruire la storia in ordine diverso possono invogliare a un secondo giro per cogliere dettagli sfuggiti alla prima esperienza.
In un mercato dove spesso si punta alla quantità di contenuti, Dead Take sceglie la via opposta: un’esperienza compatta ma densa, senza momenti superflui.
Conclusione
Dead Take è un horror psicologico che non si limita a far paura: ci spinge a riflettere. Non tutti apprezzeranno la sua natura più cerebrale rispetto a un horror tradizionale, ma chi cerca una storia intensa, ben recitata e capace di sfruttare il linguaggio videoludico in modo originale troverà un titolo da ricordare.
Surgent Studios ha creato un’esperienza breve ma incisiva, in grado di fondere escape room, narrativa e cinema interattivo in un’unica formula. Un gioco che, pur non rivoluzionando le meccaniche, si distingue per atmosfera, direzione artistica e potenza tematica.
Dead Take è disponibile solo su PC sia su Steam che su Epic Games a 12,50€.
La recensione in breve
Dead Take è un viaggio teso e immersivo nei corridoi e nelle vite del potere hollywoodiano, dove enigmi, FMV e interpretazioni magistrali costruiscono un’esperienza breve ma memorabile. Un cast stellare ed una direzione artistica diretta e impattante lo rendono un'esperienza da vivere, sebbene forse un po' carente in termini di jump-scare ed enigmi in grado di mettere un po' alla prova il giocatore.
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Voto di Game-eXperience