Benvenuti a Castor Woods, un ridente borgo turistico pigramente adagiato fra verdi distese boscose e placidi paesaggi nivali: una veduta da cartolina ora trasformata in un putrescente coacervo di orrore e malanimo. Il morbo di Harran ha da tempo valicato le alte mura della metropoli mediorientale, trascinando l’umanità sull’orlo dell’estinzione e vincolandola all’ultimo gradino della catena alimentare. Dopo tredici anni di prigionia e atroci esperimenti, Kyle Crane sembra essere riuscito a spezzare queste catene, per riaffacciarsi sul mondo come un brutale superpredatore: una proficua maledizione che l’uomo intende sfruttare per farsi strada fino a quello che per oltre una decade è stato il suo aguzzino.
Il Barone deve morire, e il suo cadavere finirà inevitabilmente per ornare l’ultima tappa di un’avventura densa di superviolenza e prodezze funamboliche, che punta chiaramente a riavvicinare gli equilibri della proposta a quelli del capitolo inaugurale. In attesa di valutare gli esiti di questo “ritorno alle origini”, possiamo dirvi che la demo provata a Colonia ci ha rassicurato circa il potenziale di Dying Light: The Beast, che si avvicina ai blocchi di partenza con un assetto piacevolmente snello e un temperamento a dir poco feroce.
Il bestiale ritorno di Kyle Crane
La build presente alla Gamescom offriva una frenetica scampagnata “in medias res”, proponendo una missione presumibilmente collocata nella prima metà dell’avventura, e all’apparenza slegata dal filone principale della trama. Nei panni di un Kyle Crane già dotato di alcuni dei suoi poteri “bestiali”, siamo stati dunque chiamati a risolvere un grave problema di approvvigionamento, tale da mettere a repentaglio il relativo benessere dei sopravvissuti radunati nel municipio di Castor Woods. Saettando di tetto in tetto verso un impianto idrico ai margini della cittadina, abbiamo subito ripreso confidenza con un sistema di movimento efficace e appagante, che trae indubbiamente beneficio dai passi avanti compiuti col secondo capitolo in termini di animazioni e fluidità, cercando comunque di riportare la formula a una forma più “pura” di parkour, in linea con i canoni del primo Dying Light.
Niente paraglider e orpelli vari, dunque, solo muscoli, riflessi e una sana dose di panico. Sì, perché uno degli aspetti che più abbiamo apprezzato in Dying Light: The Beast è la vorace irruenza degli infetti che popolano le strade di Castor Woods, che contribuisce a rinvigorire l’ascendente ansiogeno della produzione. Oltre a sfoggiare un design piacevolmente repellente, i nemici si dimostrano quantomai aggressivi e pericolosi, capaci di mettere alle strette perfino un marcantonio colmo di risentimento e bizzarrie genetiche come il buon vecchio Kyle. Dopo il calar delle tenebre, in particolar modo, sarà difficile scrollarsi di dosso la sensazione di sgambettare sul confine fra la vita e la morte, specialmente quando ci si troverà a rifuggire dalle attenzioni di una torma di Notturni o di qualche altro abominio d’elite.
Va da sé questa revisione sistemica del livello di sfida spinge a sfruttare in modo più oculato gli spazi di Castor Woods e le abilità di Crane, che dal canto suo può contare su un nutritissimo arsenale di strumenti letali. Sorvolando sul ritorno delle armi da fuoco, gradevoli da usare ma comunque poste ai margini del sistema di combattimento, abbiamo davvero apprezzato la ritrovata fisicità degli scontri corpo a corpo: sia in termini di animazioni che di gestione degli impatti, The Beast sembra tornato sulla retta via dopo le importanti flessioni del predecessore, con la complicità di un “gore system” che punta ad alzare l’asticella della serie in tema di menomazioni ed efferatezza. Capiamoci bene: il nuovo Dying Light non ambisce in alcun modo a “reinventare la ruota”, né sembra avere velleità trasformative per ciò che riguarda l’assortimento del gameplay, come era legittimo aspettarsi da un titolo nato dall’evoluzione ipertrofica di un DLC. Resta il fatto che il tutto sembra funzionare piuttosto bene, anche per ciò che riguarda la principale novità sul versante ludico.
Come suggerisce il titolo, infatti, il protagonista è capace di manifestare facoltà superumane piuttosto dirompenti, mettendo da parte la propria umanità per liberare una furia bestiale e altamente distruttiva. Durante i frequenti scambi di mazzate che costellano l’esperienza, Crane potrà colmare un indicatore che, una volta saturo, gli permetterà travolgere gli avversari con una tempesta di percosse a mani nude, guadagnando al contempo un’inusitata resilienza ai danni e utilissime facoltà rigenerative. Sappiamo che nel corso dell’avventura Kyle potrà sviluppare queste capacità recuperando campioni organici da minacce particolarmente letali, ma la demo di Colonia non ci ha permesso di approfondire né questo, né gli altri rami dello skilltree (Potenza, Agilità, Sopravvivenza), che dovrebbero avere un assetto più tradizionale in termini di progressione. Allo stesso modo, ci risulta difficile formulare considerazioni di valore su quest design, strutturazione degli scenari e impianto narrativo, tutti aspetti che potremo approfondire solo più avanti.
Al momento possiamo dirvi che il design dell’ambientazione ci è sembrato curato e funzionale, meno verticale rispetto al passato ma tendenzialmente più organico, nonché sostenuto da una direzione artistica di valore, capace di trasfigurare la tematizzazione turistica in un carosello di scorci inquietanti, specialmente nelle ore notturne. Questo col contributo di un C Engine che, pur non superando di molto gli standard tecnici del secondo capitolo, mostra migliorie significative e ben misurate, specialmente per quel che riguarda il sistema d’illuminazione e l’effettistica. Tanto basta, insomma, per guardare con interesse al ritorno della serie post apocalittica di Techland, che il prossimo 19 settembre approderà sugli scaffali con uno stuzzicante “passo laterale” sul cammino verso il futuro del franchise.