Il crimine paga. Paga se se ne parla, ovviamente, come un artificio narrativo per dare sfogo a quella vena altrimenti inesprimibile: l’adrenalina, l’illegalità, l’impossibile.
Da sempre, il crimine organizzato esercita un fascino inconfondibile sul mondo della narrazione. Un romanzo, un film, una serie tv, un videogioco: ogni mezzo capace di raccontare una storia ha, in qualche modo e in varie forme, attinto a piene mani dalla mitologia della criminalità organizzata, della mafia, trasformandola a piacimento a seconda delle esigenze: ora come nemico spietato da abbattere, ora come antieroe tormentato, ora come sistema parallelo di potere e onore da rispettare. Nel medium videoludico, la mafia non è sempre e solo un avversario: è un ecosistema, un mondo chiuso fatto di codici, tradimenti e ascesa al potere, un sistema per il quale ci sono solo due strade: farne parte, o diventarne nemico.
In principio fu GTA
L’industria videoludica, da quando ha iniziato a sentire sempre più la necessità di raccontare una storia, ne ha spesso fatto uso. Uno degli esempi più iconici risale al 2001, con l’immortale Grand Theft Auto III di Rockstar Games e la sua Liberty City ricca di opportunità, soldi e soprattutto crimini. Salvatore Leone, capo supremo della famiglia che porta il suo nome e padrone (ma non per questo incontrastato) di Portland, ricalcava la figura del mitologico Padrino: un uomo d’onore vecchio stampo, ma privo di scrupoli. Leone domina la città dalla sua villa in collina, circondato da leali sgherri, ma basta una soffiata sbagliata per scatenare la paranoia e l’azione, anche a costo di mettere a ferro e fuoco la città nella sua lotta infinita contro i Forelli e tutte le altre gang della Città della Libertà. La sua influenza, come i giocatori scoprirono solo alcuni anni dopo, si estendeva fino a San Andreas, dove la mafia di Las Venturas si intreccia con il business dei casinò e la corruzione politica. In GTA: Liberty City Stories, addirittura, si entrava ancor di più in questa sfera mafiosa: il protagonista era Toni Cipriani, tornato dopo anni in città e desideroso di rientrare nei ranghi della famiglia Leone. Ma il destino di Salvatore, come la letteratura e l’intrattenimento ci hanno spesso raccontato, era già scritto: nel mondo dei videogiochi, il potere mafioso è una fiamma che brucia in fretta, divorata dalla vendetta o dall’ambizione. E così sarà anche per lui, incapace di tenere stretto con sé gli amici e di crearsi ancora più nemici.
Si potrebbe scrivere un trattato su come la serie Grand Theft Auto ha saputo elaborare la sfera mafiosa, facendone uno dei suoi elementi cardine ma riuscendo a trasformarla a piacimento a seconda delle esigenze. Tommy Vercetti, protagonista di GTA: Vice City, era ad esempio una figura molto diversa da Salvatore: mentre Leone era il patriarca ormai consolidato e forse anche per questo troppo sicuro di sé, Tommy rappresentava il criminale che non si preoccupa a sporcarsi le mani, a vivere e costruire la mafia, scalando le gerarchie criminali facendo piazza pulita dei rivali. E se a Vice City i rivali erano i signori della droga locali, Liberty City era teatro della guerra tra Leone e la Yakuza.
Yakuza, la mafia del Sol Levante
Proprio Yakuza è anche il nome di una delle più celebri saghe videoludiche di SEGA. Ribattezzata Like a Dragon in occidente solo pochi anni fa, la serie offre un ritratto profondamente diverso. Qui la mafia giapponese – la ninkyō dantai, l’organizzazione cavalleresca – è violenta e spietata, ma anche guidata da un profondo senso dell’onore, dei legami familiari e da un’etica tutta propria, offrendo così uno scenario molto differente rispetto al classico racconto criminale. Kazuma Kiryu non è un gangster nel senso occidentale: è un ex-yakuza che cerca redenzione, ma che non esita a sporcarsi le mani per proteggere ciò che ama. Le faide tra clan, i tradimenti interni, l’influenza sulla politica e sull’economia giapponese vengono rappresentati in modo teatrale, ma non superficiale. Del resto, Yakuza non è una serie à la GTA, non è un classico sandbox con mille possibilità e la libertà di fare ciò che si vuole. Pur non esaltandola certamente come un esempio virtuoso, Yakuza racconta della mafia come un’organizzazione fatta di rispetto, cicatrici e codici morali, che difficilmente si ritrovano nei mafiosi d’oltreoceano.
Un omaggio al classico
Gli stessi mafiosi che Hangar 13 e 2K Games hanno raccontato in più occasioni con la serie, per l’appunto, Mafia. Il primo capitolo, ambientato negli anni ’30, è un chiaro omaggio a film indimenticabili come Il Padrino e Quei bravi ragazzi, ma con una chiave tragica: Tommy Angelo entra nella famiglia Salieri per necessità, per cercare una vita migliore, e ne esce con il sangue sulle mani e un destino segnato che gli stessi giocatori osserveranno senza poter fare assolutamente nulla, quasi a ricordare che il crimine ha sempre un prezzo. Il secondo capitolo, con Vito Scaletta, racconta la scalata sociale tra le macerie del dopoguerra. Mafia III, invece, ribalta la prospettiva: Lincoln Clay è un afroamericano che combatte la mafia italoamericana con metodi da guerra del Vietnam, muovendosi in un’America razzista, corrotta e insanguinata.
Qui la mafia diventa un simbolo del vecchio potere che crolla sotto il peso della storia. Il giocatore non è più un affiliato, ma un vendicatore. Non si cerca la gloria, ma la distruzione sistematica del sistema criminale che ha ucciso tutto ciò che contava. Accadrà invece l’esatto contrario con l’imminente Mafia: Terra Madre, un capitolo che vuole consapevolmente tornare alle origini del mito, se così vogliamo chiamarlo. Lo scenario sarà quello della Sicilia di inizio Novecento, dove l’organizzazione, che un giorno metterà le sue mani sull’America, muove i suoi primi e sanguinosi passi.
Altri esempi d’autore
Ma la mafia non è certo limitata all’Italia e alla sua espansione verso il Nuovo Continente. Altri videogiochi hanno raccontato di come questo fenomeno abbia dato origine ad ambiti completamente diversi, anche negli intenti e nel modo di agire. In Max Payne 2, le mafie russe incarnano il volto glaciale del crimine post-sovietico, cinico e brutale, che non si fa scrupoli ad agire in prima persona e di fronte a tutti. In Sleeping Dogs, ambientato a Hong Kong, la mafia assume il volto delle Triadi: onore e tradimento si fondono in una danza mortale dove l’infiltrato rischia di diventare ciò che combatte. Le stesse Triadi che nel 2003, in quello che all’epoca venne (giustamente) descritto come un clone di GTA 3, il detective cinese Nick Kang combatteva a Los Angeles in True Crime: Streets of LA, ritrovandosi nel mezzo dei giochi di potere dei mafiosi signori della droga.
Alcuni titoli scelgono un approccio più gestionale, quasi da SimCity criminale. Omerta: City of Gangsters permette di costruire un impero mafioso nella Atlantic City degli anni ’20, durante il proibizionismo. Il giocatore gestisce racket, scontri con altre famiglie, investimenti illeciti, in un’atmosfera tipica da film noir. Cartel Tycoon, invece, trasporta il giocatore nel Sud America degli anni ’80, nei panni di un narcotrafficante che fa di tutto e, infine, lascia il passo al nuovo. Il messaggio è forte e chiaro, ed è ricorrente nei videogiochi che trattano questo tema: la mafia non è mai una sola persona, ma un sistema che si rigenera.
Ma perché i videogiochi sono così attratti dalla mafia?
Perché funziona così bene come elemento narrativo? La risposta è duplice: da un lato, la mafia è potere, controllo, è tutto ciò che è proibito e che nella vita reale non possiamo (e non vogliamo) essere; dall’altro, è una potenziale fonte inesauribile di tragedia, declino, perdita, ma anche adrenalina.
E in questo bivio si nasconde la vera forza narrativa della mafia nei videogiochi: non solo un nemico, ma uno specchio. Un mondo che ci affascina perché racconta quello che potremmo diventare se scegliessimo la strada sbagliata, o quella più comoda. Ci sono tre modi di fare le cose: il modo giusto, il modo sbagliato e il modo di Max Power (cit.), e la mafia, in qualche modo, è capace di raccontarli tutti.