Dragon Age: The Veilguard doveva essere il grande ritorno di BioWare, ma si è rivelato un esperimento caotico, nato con un’identità incerta e trasformato in corsa. Dietro la facciata di un gioco di ruolo ambizioso si cela una produzione lunga dieci anni, segnata da crisi creative, cambi di rotta e decisioni aziendali contraddittorie.
Jason Schreier ha rivelato su Bloomberg (grazie a Forbes) che il gioco era inizialmente pensato come titolo multiplayer, sull’onda del successo di Destiny e della moda dei live service. Quando questa direzione si è dimostrata inefficace, il team ha cercato di riconvertirlo in un classico RPG single player. Ma senza possibilità di ripartire da zero, il risultato è stato un ibrido mal riuscito, con meccaniche e strutture pensate per il multiplayer forzatamente adattate alla campagna.
Uno degli aspetti più compromessi è stato il tono dei dialoghi. Inizialmente pensati in stile “snarky”, simile a Forspoken, sono stati completamente riscritti in fase finale dopo che BioWare ha temuto un effetto boomerang, visto il flop e le critiche ricevute dal titolo Square Enix. Questa modifica in extremis ha generato un tono narrativo incoerente, spezzando l’immersività e la consistenza stilistica. Anche la mancanza di vere scelte morali, come la classica decisione “quale città salvare”, ha deluso i fan di vecchia data, venendo inserita solo in fase avanzata di sviluppo, senza il giusto peso narrativo.
Il trailer iniziale, con uno stile visivo simile a Fortnite, ha ulteriormente confuso pubblico e critica, facendo temere che EA non sapesse più a quale target rivolgersi. In risposta alle difficoltà, sono stati coinvolti veterani di Mass Effect per cercare di salvare la situazione, ma ormai la struttura compromessa del gioco non permetteva una reale inversione di rotta.
Il risultato è stato un lancio sottotono, vendite inferiori alle attese, e — secondo alcuni analisti — una condanna quasi definitiva per la saga di Dragon Age, ma soprattutto un colpo durissimo per la stessa BioWare.