L’uscita di Prey sulla piattaforma streaming Disney+ ha fatto riaprire una finestra sull’universo di Predator che da un po’ di anni non era più tanto ben vista dalla critica cinematografica e dai fan del franchise.
Regista della pellicola è Dan Trachtenberg (10 Cloverfield Lane), che ha saputo dignitosamente mettere a punto un buon prequel survival a sfondo fantascientifico; infatti, il punto forte di Prey è la sua ambientazione storica. Ambientato nel nord America del 1719, vediamo come protagonista Naru, una giovane donna Comanche addestrata come guaritrice, che sogna di essere una cacciatrice come suo fratello maggiore Taabe. Durante la ricerca di una preda, Naru si imbatte in qualcosa di molto pericoloso, si tratta appunto di un Predator (Yautja), della quale ad inizio film possiamo vedere lo sbarco sulla Terra.
Prey è un film che già a partire dal titolo (Preda) fa intendere che ci mostrerà qualcosa di diverso rispetto agli altri titoli della saga, ci vengono messi di fronte continui parallelismi tra la caccia del Predator che cerca di scalare la catena alimentare e di prenderne il controllo, e di Naru che da preda diventa essa stessa predatrice.
Altro punto di differenza presente è lo stesso Yautja: le armi che utilizza sono un po’ antiquate rispetto a quelle che già abbiamo visto in passato, e addirittura anche la sua maschera che qui è un teschio potrebbe essere il “premio” di una caccia vinta che invece di essere stato messo sul fianco ha deciso di indossarlo.
Al di fuori della trama di Naru, quella dell’alieno è abbastanza scarna, è un film che si basa molto sulla componente action a volte un po’ confusionario, che invece avrebbe potuto sfruttare l’essenza prequel per caratterizzare di più il passato di Predator, collegandosi un po’ maggiormente agli altri titoli del franchise.
Con questo film si è capito che spesso film o anche serie tv (per esempio la nuova serie di Resident Evil) con la saga principale, che sia cinematografica o videoludica, non c’entrano molto pur facendo parte dello stesso universo immaginario o essendo prettamente collegati. Tutto ciò ci ha fatto interrogare su quali potrebbero essere, invece, tutti quei titoli, i quali non sappiamo che facessero parte dello stesso universo nonostante contengano plot completamente diversi tra loro.
Chiara Napoli
BioShock, Gone Home e Firewatch
Come si passa dalle profondità marine di BioShock agli incendi boschivi di Firewatch? L’anello di congiunzione potrebbe essere il titolo indie Gone Home e non soltanto perché Steve Gaynor, Karla Zimonja e Johnnemann Nordhagen, team dietro lo sviluppo del gioco, lavorarono in precedenza al DLC Minerva’s Den di BioShock 2. In questa espansione del tanto discusso sequel dell’FPS-RPG più celebre degli anni ’00, un personaggio minore chiamato Charles Milton Porter veniva menzionato in alcuni log audio come creatore dell’IA “The Thinker”. Gli stessi log ci raccontano di come, una volta tornato in superficie, Charles Milton Porter fondò una società chiamata CMP Interactive con la quale realizzò un videogame Spitfire.
In Gone Home scopriamo che, intorno al 1990, la CMP Interactive realizzò una conversione del suo titolo d’esordio per Super Nintendo con il nome di Super Spitfire. In questa avventura grafica del 2013 uscita pressoché per ogni piattaforma ed ambientato proprio negli anni ’90 infatti sarà possibile trovarne una copia polverosa su di uno scaffale, riconoscibile dal logo della CMP Interactive stampato sull’etichetta frontale. Gli sviluppatori dichiararono a più riprese come Gone Home si ispirò sia alla serie di BioShock che da System Shock 2, altro titolo realizzato da Ken Levine. Quello che potrebbe sembrare un semplice omaggio da parte di Steve Gaynor al suo precedente operato potrebbe quindi nascondere la volontà di espandere ulteriormente la lore di Rapture e dei suoi fuggitivi in un grande universo, soltanto sfiorata in occasione del DLC di BioShock 2.
A completare il cerchio ci pensa Firewatch, altro titolo a stampo “walking simulator” fortemente ispirato a Gone Home. Qui è possibile trovare il libro The Accidental Savior, lo stesso scritto da Terrence L. Greenbriar padre della protagonista proprio di Gone Home. Un intreccio curioso che non è passato inosservato ai fan, i quali hanno in poco tempo dato il via alle più disparate e fantasiosi connessioni fra il titolo dei fu Irrational Games ed il simulatore di guardia parco. Dagli abissi alla brace insomma.
Mirror’s Edge e Battlefield: Bad Company
Vi ricordate Mirror’s Edge? Fu un titolo che nel suo anno d’uscita, il 2007, fece abbastanza scalpore, e non solo per la presenza di Asia Argento in sede di doppiaggio (abbiamo ancora i brividi…) ma quanto più per essere stato uno dei capostipiti dei walking simulator in prima persona fortemente influenzati dalla disciplina del parkour. I protagonisti erano infatti dei corrieri chiamati “Runners” incaricati di trasportare informazioni segrete spostandosi agilmente e soprattutto inosservati fra i tetti dei palazzi di Glass, una metropoli ipertecnologica. Il gioco fu sviluppato da DICE, la stessa divenuta famosa per aver curato negli anni la serie di Battlefield.
In Mirror’s Edge scopriamo un divertente dettaglio che sembra collegare i due titoli apparentemente slegati fra loro. Nonostante le ambientazioni totalmente differenti dovuti alle due location distanti fra loro, è possibile trovare in Mirror’s Edge un riferimento alla Bad Company contenuto in un messaggio pubblicitario appeso all’interno di un ascensore. Questo messaggio infatti si riferisce ad un conflitto in atto nella nazione fittizia del Serdaristan, la stessa presente nello spinoff di Battlefield Bad Company. Un altro riferimento allo sparatutto di EA, ancora più evidente questa volta, è invece scovabile in Mirror’s Edge Catalyst, sequel/reboot uscito nel 2016. In una registrazione chiamata Omnistat Gold #1 sentiremo infatti nominare i membri della Bad Company.
Viceversa, in Battlefield: Bad Company è possibile trovare le iconiche scarpe di Faith, nonché le inconfondibili valigette gialle che in Mirror’s Edge fungevano da collezionabili, nascoste in alcune mappe di gioco.
Wolfenstein e Doom
Tutti conoscono due capisaldi degli FPS come Wolfenstein e Doom, ma non tutti sanno che i due titoli potrebbero avere ben più in comune delle sole meccaniche di gameplay tipiche degli sparatutto in prima persona. Pur essendo entrambi parte della grande famiglia di Bethesda, i due titoli presentano un setup completamente diverso: l’Europa distopica così formata dalla vittoria dei nazisti durante il secondo conflitto mondiale da una parte e la Terra completamente invasa e mutata dalle infernali creature dall’altra. Un’indizio di un’ipotetica connessione fra le due saghe però si trova in Wolfenstein RPG, un particolare spinoff sviluppato nel 2008 da id Software per mobile che mescolava elementi FPS classici ad altri più RPG-oriented. Il gioco infatti culmina con lo scontro finale con il boss Harbinger of Doom, una creatura giunta da un’altra dimensione.
Messo alle strette dal nostro eroe, il misterioso mostro si confessa rivelando al protagonista William “B.J.” Blazkowicz come egli stesso continuerà a tormentare i suoi discendenti anche nel futuro. Proprio l’Harbinger of Doom diventerà infatti l’iconico Cyberdemone tanto caro a fan della serie di Doom, come confermato nel successivo spinoff Doom RPG. Che anche il Doom guy sia un lontano parente di Blazkowicz?
Alan Wake, Quantum Break e Control: l’universo Remedy
Questa è probabilmente la più evidente di tutte, ma qualora vi foste persi la connessione fra il trittico di giochi sviluppati dalla finlandese Remedy Entertainment eccovi la spiegazione. In principio fu Alan Wake, la storia di un autore di romanzi tormentato dal blocco dello scrittore giunto nella cittadina di Bright Falls per trovare nuova ispirazione. Qui però andrà incontro ad una serie di misteri a metà strada fra Twin Peaks e Ai Confini della Realtà che lo porteranno a combattere contro creature oscure e minacciose. Sia Quantum Break che Control sono disseminati di riferimenti più o meno espliciti ad Alan Wake, lasciando presagire ad un universo condiviso.
Ogni dubbio è stato fugato con l’uscita del DLC Control: AWE, un vero e proprio crossover che mise di fronte, anche se solo attraverso alcune visioni, Jesse Faden al tenebroso scrittore, confermando di fatto la teoria dell’universo condiviso fra i due titoli. Il DLC infatti approfondisce tutti i collegamenti fra Wake, Bright Falls e la Oldest House. Purtroppo però tale espansione si è rivelata essere un buco nell’acqua e il personaggio di Alan Wake non è praticamente quasi mai presente, se non attraverso menzioni in documenti e carte. Scopriremo qualcosa in più sulla lore che accomuna i tre titoli nell’attesissimo sequel di Alan Wake?
Mass Effect e Dragon Age
Entrambi realizzati da BioWare, le serie di Mass Effect e quella di Dragon Age hanno per anni rappresentato due visioni tanto differenti quanto similari di quell’Action RPG divenuto marchio di fabbrica della software house statunitense. Apparentemente del tutto scollegata dalle vicende narrate in Dragon Age, l’odissea nello spazio di Shepard e compagni potrebbe essere invece ambientata nello stesso universo del titolo a stampo fantasy di BioWare. Le prove? Al di là di innumerevoli easter egg sparsi per entrambe le serie, come la testa di un Krogan esposta in un castello di Dragon Age e una statua di un ogre in Mass Effect, c’è un’altra teoria che stuzzica maggiormente la fantasia dei fan.
In Mass Effect è presente Presrop, una luna del pianeta Klendagon, descritta come un satellite un tempo civilizzato e poi reso inospitale da una “calamità misteriosa”. Alcuni fan hanno trovato delle similitudini fra la “luna” visibile da Thedas in Dragon Age e il pianeta di Klendagon visto in Mass Effect. Viceversa, Thedas stessa potrebbe rappresentare Presrop in un tempo remoto in cui era effettivamente abitato.
Certo è che si trattano di pure congetture, che ci piace però immaginare come non del tutto casuali bensì volute da quei geniacci di BioWare. Chissà, magari in un futuro non remoto vedremo davvero un astronauta sconfiggere un drago a colpi di spada?