Nell’antichità Platone si pose una semplice domanda: da dove arriva la nostra conoscenza? Rispose ipotizzando il mondo delle idee, necessario per spiegare, secondo lui, come fa un bambino a riconoscere come cane, fin da piccolissimo, sia un chihuahua che un alano. Ripensandoci, in effetti, sembra meno che banale: cosa fa di un cane, un cane? Le quattro zampe? Il verso? Difficile trovare una risposta oggettiva ma rimane aperta la possibilità di applicare questo tipo di discussione a praticamente qualsiasi argomento. Tra cui i videogiochi.
Da quando gli esports hanno preso il sopravvento diventando la vetrina quotidiana del mondo gaming, capace di attirare a sé sponsor e investitori da ogni angolo del mondo, ci si è interrogati abbastanza spesso su cosa siano gli esports. Sport elettronici, afferma qualcuno, sport digitali preferisce specificare qualcun altro. Intrattenimento con un pizzico di competizione, raccontano altri ancora, puntando sulle proprietà sceniche. Persino gli scacchi, oggi, iniziano a rientrare nella sfera dell’esports secondo alcuni pareri, forse molto più vicino al gaming competitivo che allo sport tradizionale.
La vera domanda rimane sempre la stessa: cosa fa di un esports, un esports? Perché un videogioco viene considerato come un titolo competitivo e un altro no? Fare chiarezza su questo tema non è scontato, considerato che attualmente non esiste una letteratura in merito. E allora può essere conveniente iniziare a fissare alcuni punti chiave dell’esports e di cosa rende un videogioco tale. Partendo da un fulcro centrale inamovibile: lo spettatore.
Gli esports moderni non sono nati per il gusto di competere o far competere, ma per mostrare la competizione, per proporre un nuovo contenuto a una certa tipologia di pubblico. Quel pubblico legato al mondo del videogioco, ma non solo. Non è un caso che gli esports siano nati, in Corea del Sud, quando per la prima volta è stato trasmesso in TV nel 1999 un torneo di Starcraft: Broodwar. È intorno allo spettatore che si forgiano i cinque criteri che contraddistinguono un esports da un “semplice” videogioco. Perché tutti gli esports sono videogiochi ma non è vero il contrario.
Intuitività. La modalità spettatore deve essere il più possibile intuitiva, fattore necessario per lo spettatore per comprendere rapidamente i movimenti del giocatore inquadrato o della strategia messa in atto dalla squadra. Un esempio classico è Counter-Strike: GO, dopo 20 anni (seppur in diverse versioni) ancora tra i top esports al mondo. Il motivo: la sua intuitività. Capire cosa un giocatore sta facendo e come è talmente semplice che non è necessario giocare al videogioco per poterne seguire i tornei e le competizioni.
Fruibilità – L’interfaccia grafica deve rispondere alla necessità di facile lettura e comprensione delle informazioni inerenti la partita in corso. I punti vita dei giocatori, gli eventi in corso sulla mappa, l’economia dei vari personaggi e il punteggio relativo ai vari obiettivi. Il più indicativo in tal senso è League of Legends: titolo che ha trovato il corretto equilibrio tra la mole di informazioni fornite in una sola interfaccia e la pulizia della stessa che non va a intaccare l’esperienza dello spettatore.
Accessibilità – Ovvero quanta profonda conoscenza del videogioco è richiesta per comprenderne le dinamiche. In un esports ideale la barriera all’ingresso dovrebbe essere la più bassa possibile per permettere ai nuovi spettatori di rimanere incuriositi e facilmente attratti, senza tuttavia diventare troppo semplicistici, annoiando poi i viewers più navigati. Un esempio è Starcraft, titolo che rimane godibile per lo spettatore nonostante ciò che traspare da una partita di torneo è un centesimo di ciò che realmente stanno facendo i protagonisti del match. Eppure rendersi conto che Riccardo “Reynor” Romiti sta per vincere il titolo mondiale è stato semplice per tutti. Poi, ovviamente, ci sono anche titoli accessibili per analogia, in quanto richiamano sport o esperienze già conosciuti: FIFA, PES, MotoGP e Formula1 su tutti. Serve davvero sapere come funziona il gioco a livello professionistico per godere dello spettacolo di un videogioco che simula uno sport tradizionale?
Vendibilità – Il titolo deve essere spendibile per creare storyline, rivalità tra giocatori e squadre, promuovendo così indirettamente l’interesse per il videogioco. Più se ne parla e più potenziali spettatori ne saranno attratti, spingendo gli sponsor a mostrare vivo interesse. Un esempio recente è Overwatch che ha presentato la Overwatch League con una struttura del tutto simile agli sport tradizionali nordamericani: le squadre sono associate a una città e a un appellativo che ne definisce il carattere ma soprattutto la linea mediatica. Abbiamo così i Los Angeles Gladiators, i New York Excelsior, i London Spitfire, gli Shanghai Dragons e i Seoul Dynasty.
Futuribilità – Aspetto che riguarda più il videogioco in sé che la parte competitiva. È necessario mantenere costantemente fresco il titolo, tramite patch e cambiamenti che incidono anche sulle strategie competitive, invitando così le squadre e i giocatori a rinnovarsi nel corso del tempo, suscitando ulteriore curiosità nello spettatore. Senza però stravolgerne l’identità, in modo da non allontanare i giocatori di vecchia data.
Il bilanciamento di questi cinque punti definisce il concetto moderno di esports competitivo che deve avere sempre e comunque come focus centrale l’utente finale, ovvero lo spettatore: sono la sua esperienza e la sua soddisfazione, infatti, a determinare il successo o meno di un titolo esports, e non quella del giocatore o della squadra. La ricetta giusta, le proporzioni da utilizzare, tuttavia, non la conosce nessuno: è compito di ogni publisher tentare di intuire a quale criterio dare più o meno attenzione. Senza, ovviamente, dimenticare la natura o lo stile proprio videogioco. E che, oltre lo spettatore, c’è sempre un videogiocatore a cui mostrare rispetto e dedizione.